Quando Erwin Wagenhofer, nel suo celebre documentario "Let's make money", parla dei nuovi concetti figli del mercato finanziario moderno, ascolto rapito quelle parole che scandiscono in modo così chiaro quello che il sistema economico mondiale è diventato oggi. Difficile non pensare immediatamente che anche se stretti in pochi km quadrati, anche San Marino fa parte del mondo.
Anzi, più precisamente, forse fa parte proprio del mondo dipinto dal documentario di Wagenhofer. Un ingranaggio del sistema. Un sistema che al di là delle frasi demagogiche che si potrebbero facilmente tirare fuori, è semplicemente troppo grande per una micro realtà come quella dell'Antica Repubblica di San Marino. Un moloch economico che allunga i suoi tentacoli in tutto il globo terracqueo, e contro il quale è assurdo anche solo pensare di opporsi.
Il territorio, quello rurale e antico, quello fatto di pietre e sudore, di uomini e antiche torri, oggi non conta più abbastanza. Incapace di confrontarsi con la globalizzazione economica che pone un microstato dell'Europa Meridionale al cospetto di gruppi di interesse mondiali, infinitamente più potenti.
Ascoltando le parole di Wagenhofer, resta solo questo. La consapevolezza di osservare oggi, i risultati di un passaggio di un qualcosa talmente grande, talmente denso di marciume, che non si poteva far altro che subire. Siamo vittime.
Vittime non solo oggi, ma da sempre. Perché quando tolgono ad un popolo la dignità della sua fatica, del suo lavoro, non resta nulla.
I libri di storia ci raccontano che cento anni fa San Marino era un paese povero, ma degno. Nel quale la fatica del lavoro quotidiano era determinante. Era tutto. Occupare la mente e le braccia in qualcosa di produttivo per se stessi e per la propria gente significava tutto. Era la vita.
Oggi, alla gente della nostra terra è stato tolto il senso del lavoro. Inseriti per troppo tempo in un sistema che non ha richiesto sforzi, iniziative, idee. Un sistema capace di generare ricchezza senza quella intellighenzia che nei secoli ci ha contraddistinto.
Ma come recita il famoso detto, la speranza è l'ultima a morire. Oggi è tempo di osservare la depressione del nostro tessuto sociale, della nostra terra. E' tempo di comprendere che costruire un futuro ricco significa rimettersi in gioco in prima persona. Senza aspettare chi, venendo da lontano, potrebbe essere interessato a sfruttare nuovamente il nostro paese senza generare ricchezza. Senza lasciare sviluppo, ma solo edifici vuoti. Insensati.
Questo, tradotto in fatti significa imprese nuove, idee nuove capaci di utilizzare al meglio le armi che la nuova economia mondiale ci mette in mano. Vorrei sentire che il mio piccolo paese alza la testa come a dire che anche lui, nel terzo millennio ha qualche cartuccia da sparare.
Abbiamo la fortuna di essere un paese sovrano in un epoca in cui poter decidere la propria strada economica è fondamentale. Ci vuole coraggio, ma come alcune realtà locali hanno dimostrato, creare imprese competitive con il mercato è possibile. Anche in un piccolo paese come questo.Siamo agli albori di una nuova economia, nella quale un piccolo ufficio con poche persone può generare molta più ricchezza di un'industria pesante in capannoni di migliaia di metri quadri.
Sfruttare le nostre potenzialità per generare ricchezza reale, per veder nascere idee e società vere, e non solo casseforti per il denaro degli altri, oggi non è solo un dovere, è una necessità.
SM
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